IL PINOT NOIR APPUNTI PER UNA LEZIONE Di Francesco Falcone
<<Come
il volo dell’uccello, come il muretto ammaccato dal tempo, come quel settembre
che ha malinconia dell’estate, come i piccoli grappoli di Pinot Noir, afflitti
da acinellatura, nelle grandi vigne di Vosne Romanée. Cose semplici che danno
il senso dell’eternità.
Se
il Pinot Noir fosse un luogo, godrebbe di panorami assoluti e di immagini
indimenticabili. E basterebbe allungare lo sguardo per essere in viaggio tra il
Bosforo e le Indie, tra campi di ciliegi e giardini in fiore.
Se
il Pinot Noir fosse un luogo, si troverebbe ad altezze non plausibili, da
raggiungere attraverso strade d’infiniti tornanti. E basterebbe alzare lo sguardo
per ritrovarsi dentro un cielo colorato di numerose tonalità di blu.
Se
il Pinot noir fosse un luogo, giacerebbe su un enorme, primordiale regione
calcarea con dei vigneti in mezzo, l’argilla intorno e un fottuto vento occidentale
che porta tormente di grandine. E basterebbe abbassare lo sguardo sotto pochi
centimetri di terra per navigare tra miliardi di antichi fossili marini.
Quella regione esiste,
si chiama Borgogna. In verità la Borgogna è stata una regione della Francia
fino alla riforma amministrativa del 2014, che a partire dal primo gennaio 2016
l’ha inglobata nel nuovo distretto regionale di Bourgogne-Franche-Comté, nel quale per intenderci è incluso anche
il territorio enoviticolo del Jura, verso est. Detto ciò, è bene sapere che per
conoscere il vero Pinot Noir bisogna conoscere i confini dell’antica Borgogna, dove
viene citato per la prima volta intorno alla metà del 1300 con i nomi di Plant
Fin e di Garnet Pinot (Armando Castagno)
e dove il celebre decreto del 1395 di Filippo l’Ardito ne sanciva la
superiorità - e di fatto ne intimava la coltivazione. Ancora più
stringente è invero il legame che il Pinot Noir ha con il
cuore geografico del dipartimento della Côte
d’Or, una cinquantina di chilometri che
da
Chenôve corrono verso sud fino a Cheilly-lès-Marange. È solo lì
che il destino ha regalato a quella volubile varietà il talento per trasformarsi
nei più grandi rossi del pianeta, liquidi celestiali lontani dalle cose della
terra, la cui assurda complessità costringe tanti (troppi) appassionati in
tutto il mondo a spendere follie. Del resto la follia appartiene appieno alla
personalità del Pinot Noir, tra i più selettivi e incostanti vitigni che ci è
dato conoscere, e allo stesso tempo tra i più geniali che l’ampelografia abbia
mai studiato e catalogato. Una varietà molto antica e geneticamente molto
instabile, tanto da vantare una lunga sequenza di ascendenze e discendenze, alcune
delle quali parecchio curiose, come ci raccontano Attilio Scienza e Serena
Imazio nel loro ultimo libro La Stirpe
del Vino (Sperling & Kupfer).
Autoctono della Francia
settentrionale, il Pinot Noir occupa oggi nel mondo circa 90.000 ettari di
terreno,
marcando una presenza importante non solo in Francia, ma anche in Germania,
Svizzera, Austria, Repubblica Ceca e – fuori dall’Europa – negli Stati Uniti,
in Australia e in Sudafrica. Eppure, esso regala rossi artistici e irripetibili solo lungo quella fortunata dorsale
collinare impastata di marne e di calcare, esposta a oriente, nel cuore della
Côte d’Or. Solo lì, senza eccezioni, il Pinot Noir diventa sublime, mescolando elementi
varietali (di natura terpenica) e territoriali senza far mai del tutto capire
dove finiscano i primi e dove inizino i secondi. Vini che nelle condizioni più
felici si traducono in liquidi di raffinata purezza, a cui è impossibile
resistere. Vini che paiono un unicum
di bellezza rara e aleatoria: rara in
quanto mai altrettanto stupefacente fuori da quelle poche migliaia di ettari
coltivati a vigna; aleatoria
perché continuamente messa a repentaglio
dai capricci di Madre Natura.
Si è talmente consolidato il binomio Côte d’Or/Pinot Noir, che gli esiti di quel secolare miracolo enoviticolo sono diventati - ovunque nel mondo - l’archetipo di ciò che signifi fino in fondo la parola terroir. Una fusione così unica e irreprensibile, che assaggiando un Pinot Noir coltivato e vinificato fuori da quei nordici confini si ha l’impressione di svegliarsi di soprassalto da un sogno leggiadro come ali di farfalla, per planare come un Boeing 747 sulla più cruda delle realtà. Non parlo solo di qualità, non è questo il punto. Il punto è che altrove spariscono il genio e il talento, e rimane la normalità. Anche assaggiando i rossi più credibili, fatti con grande mestiere e con infinita competenza, il tentativo di accordare luogo d’origine e vitigno non risulta quasi mai risolto: qualche volta prevale il primo, altre il secondo. Avendo dunque piena contezza che la magia del Pinot Noir è la magia della Borgogna, e che altrove l’incantesimo è destinato a non funzionare. Inevitabilmente.
Morfologicamente simile
a una pigna
(da qui il nome Pinot), si manifesta
con un frutto piccolo e leggero distribuito lungo un grappolo compatto che si
dirada solo laddove si presentino problemi di acinellatura (in Borgogna capita
sovente). Gli acini, piccoli e piuttosto tondi, sono ricoperti da una buccia
talmente sottile da esporre il frutto sia alle scottature estive, sia agli
attacchi di muffe e marciumi a ridosso della piena maturazione. Anche per
questa ragione - a dispetto della sua ampia diffusione - è un vitigno parecchio
selettivo, con conseguente irritazione di molti produttori ambiziosi.
Sulla scia del
clamoroso successo mondiale dei grandi rossi della Côte d’Or, che ha raggiunto
vertici impressionanti soprattutto negli ultimi tre lustri, noi appassionati
siamo sempre più attratti dal comportamento del Pinot Noir fuori dalla sua terra promessa. Così facendo commettiamo
un errore di valutazione, nel senso che diamo un peso determinante al vitigno e
pressoché nullo al rapporto tra quel vitigno e l’ambiente che lo ospita. Commettiamo
un errore se vogliamo perfino banale, visto che da decenni sappiamo che l’uva è
solo lo strumento con cui il produttore <<suona>> lo spartito del
suo territorio. Insomma, è come pensare che al sottoscritto sia sufficiente un
Filicorno artigianale della Hub van Laar per suonare come Paolo Fresu:
un’idiozia. Lo so bene che il nostro desiderio è alimentato non solo dalla curiosità
e dalla sete di conoscenza, ma anche dall’opportunità di bere buoni vini a
prezzi finalmente democratici, vista l’antipatica deriva elitaria del mercato
borgognone. Ma io credo sia doveroso arrendersi all’evidenza che il vino buono è
solo il prodotto di un determinato posto ottenuto attraverso secoli di
addattamento e di ricognizioni: non a caso i latini lo definivano genius loci (genio del luogo), ovvero qualcosa
di non replicabile e di non esportabile.
In sintonia con queste
considerazioni, è dunque molto difficile, per non dire improbabile, bere
un buon Pinot Nero fuori dalla Borgogna, laddove per buon Pinot Nero si intenda un vino simile ai rossi di Borgogna. Come
scrive Armando Castagno nell’articolo Oltre
l’archetipo c’è un mondo da esplorare (pubblicato su Civiltà del Bere nel
2017), a latitudini inferiori e in climi molto caldi rispetto alle sue origini,
i vini da esso originati si rivelano goffi, surmaturi, alcolici e con odori
animali così volgari da cancellare ogni briciolo di quella grazia per cui il
vitigno è tanto celebre in letteratura. Per contro, in territori segnati da un
clima eccessivamente rigido si corre il rischio opposto, incappando spesso in
rossi crudi, vegetali, scheletrici; altrimenti rustici, duri e statici nel caso di estati accalorate. Certo, il Pinot
Noir non borgognone esiste e va conosciuto, anche perché qualcosa di dignitoso
esiste, ma va appunto affrontato senza troppe aspettattive, valutandolo caso
per caso, benché non sia facile. Ad ogni buon conto, capita di bere vini
interessanti nel Palatinato, nei Grigioni, nella Willamette Valley, e capita episodicamente
anche in Italia. E quando accade la gioia è doppia; doppia perché è così raro
incontrarne che pare di vincere alla lotteria; doppia perché è così raro
incontrarne che spesso sopravvalutiamo vini solo
dignitosi.
L’Alto Adige è stato il primo territorio nazionale a importarlo, intorno a metà dell’800, quando peraltro l’attuale provincia di Bolzano era austriaca. E in effetti ancora oggi i Pinot Noir altoatesini godono di buona considerazione: si tratta di rossi tecnicamente ineccepibili, il più delle volte ben nutriti di frutto, spesso sottili nella trama gustativa e quasi mai capaci di emanciparsi realmente in bottiglia. Mazzon è certamente oggi il terroir di maggiore vocazione in regione, in virtù di suoli ben dotati in argilla, di sottosuoli calcarei di origine triassica) e di buone escursioni termiche giorno/notte. Non vanno tuttavia sottovalutate le qualità di Appiano e Cornaiano in Oltradige, e della Valle Venosta, dove un buon numero di produttori imbottiglia con continuità vini peculiari (Stroblhof, Niedrist e Castel Juval su tutti).
Fuori dall’Alto Adige, il Trentino si può contare sul talento di Elisabetta Dalzocchio a Rovereto; il Veneto sulla voracità di Fausto Maculan; la Valle d’Aosta sul rigore di Elio Ottin a Porossan Neyves; le Marche sull’ossessione del pasarese Luigi Mancini; la Sicilia sull’abnegazione etnea di Nunzio Puglisi. Ma è soprattutto nell’enorme bacino lombardo dell’Oltrepò Pavese e nella ristretta vallata appenninica del Casentino, ai margini nord-orientali della Toscana, che oggi si vanno concependo i vini migliori: le proposte oltrepadane più luminose sono quelle di Conte Vistarino e Tenuta Mazzolino; quelle casentinesi sono invece nei cataloghi di Podere della Civettaja e Podere Santa Felicita.
Infine, ecco i pochi vini di buon livello assaggiati venerdì 7 giugno, presso il ristorante Riesling, in occasione di una nutritissima degustazione pubblica (con ben 22 vini) organizzata da Daniele Biguzzi, deus-ex-machina del gruppo Sommelierdellasera:
Tiefenbrunner Alto Adige Pinot Nero Castel Turmhof
2016
Hofstätter Alto Adige Pinot Nero Riserva Mazon 2013
Cantina Caldaro Alto Adige Pinot Nero 2016
Castello di Ama Vigna il Chiuso Pinot Nero 1998
La Crotta di Vegneron Vallée d’Aoste Pinot Noir 2015
Francesco Falcone
Degustatore, divulgatore e scrittore indipendente.