BOLGHERI, DI AMORE E DI MARE, DI PINI E DI VINI, DI STORIE E DI MITI
A Bolgheri ci lascio ogni volta il cuore.
Lo scorso ottobre ci sono tornato con Tamy, trascorrendo giorni lieti, coccolati dall’ultimo soffio di un’estate lunghissima. Alito tiepido che ricorderò per sempre, tra passeggiate in spiaggia e assaggi mirabili, tra enormi pini marittimi e borghi incastonati su crinali di roccia.
Con i suoi occhi dentro i miei.
E che dentro di me rimarranno.
Fino all’ultimo dei miei calici.
La storia del vino è legata agli uomini. Hai voglia a
raccontare le magie di un luogo, le straordinarie peculiarità di un suolo, la
classe di un vitigno se poi a questi elementi, certamente importanti, manca una
guida altrettanto ricca di talento. Si tratterebbe, come non così di rado
avviene, di potenzialità non valorizzate appieno o di grande occasione mancata:
perché la vera forza di un’azienda e di una denominazione sta tutta nelle mani,
nella testa e nel cuore degli esseri umani. Solo produttori di grandi virtù,
onesti, curiosi, competenti, ambiziosi e il più possibile coraggiosi,
permettono di chiudere il cerchio e di dare al territorio un valore complessivo
superiore alla somma dei suoi addendi. Non solo: ci vuole poi un gruppo di persone
lungimiranti, in grado di dialogare tra loro e di mettersi dalla parte del
futuro, per riuscire a creare i presupposti perché una zona sia riconosciuta
come un organismo vitale, e non come un aggregato incoerente, privo di forma.
Prendiamo Bolgheri. Al
netto delle considerazioni personali sugli esiti (e sugli approdi) del suo
successo e sul valore oggettivo dei suoi luoghi, è indiscutibile che quel pezzo
d’Italia posizionato lungo l’Aurelia, a sud della provincia di Livorno, sia tra
le zone del vinotoscano di maggior prestigio, nonostante una storia tutto
sommato recente. Non staremo a dire che fino al 1993 il disciplinare locale
prevedeva solo le tipologie Bianco e Rosato, e che alla fine del decennio
precedente le aziende attive sul territorio erano meno di una decina, non una
di più.
Nonostante la storica
presenza di Tenuta San Guido, celebre già alla fine degli anni Settanta e attiva
commercialmente dalla fine dei Sessanta, e benché nel decennio successivo altri
marchi di solido pedigree nacquero sulla scia del successo internazionale del
vino Sassicaia (Ornellaia, Grattamacco, Guado al Tasso, poi Le Macchiole), a
Bolgheri alla fine degli anni Novanta il grano e la frutta primeggiavano sulla
vite. Del resto i dati ce ne danno conferma: nel 1998 gli ettari coltivati a
vigna erano appena180.
Insomma per anni
Bolgheri è stata Terra di pallidi liquidi salmastri e di un sangiovese
piuttosto dimesso, incapace di tenere testa alle aree toscane della Toscana
Centrale (Chianti Classico, Montalcino, Montepulciano), mentre da tre decenni è
considerata, in modo inequivocabile, terra di rossi dalla spiccata inclinazione
bordolese, più o meno buoni, più o meno credibili, ma comunque lontanissimi da
quanto si produceva un tempo.
Un risultato ottenuto attraverso l’abnegazione, la lucidità e l’intelligenza degli uomini, su questo non si discute: da un lato le famiglie nobili, con enormi tenute e importanti capacità finanziarie, dall’altro i piccoli produttori, con pochi mezzi ma tanta voglia di fare e di emergere. Due realtà che invece di contrapporsi hanno saputo coesistere, per creare un progetto lungimirante e attraente agli occhi della critica e dei mercati internazionali, ribaltando le gerarchie del vino toscano.
La mia generazione di assaggiatori ha probabilmente
esaurito ogni nuova esperienza possibile. Ha bevuto ogni vino,
visitato ogni luogo, letto ogni libro, incontrato ogni produttore, digerito
ogni tecnica, interpretato e smontato ogni idea intorno al liquido odoroso.
Quello che tuttavia ci manca e ci mancherà per sempre, a meno che un genio
assoluto non realizzi sul serio la macchina del tempo, è poter tornare
fisicamente a quando tutto è partito; è vedere il mondo del grande vino
italiano in embrione, a cavallo di quella pacifica rivoluzione produttiva e stilistica
iniziata alla fine degli anni Settanta del Novecento (con accelerazioni
decisive dopo lo scandalo del vino al metanolo, nel 1986). Ecco, viaggiare
indietro nel tempo, attraversando quel fermento primigenio, quelle fiamme di
passione – ma ben prima dell’esplosione vera e propria, del successo vinicolo
diffuso, della turboenologia e del Big Bang mediatico di fine anni Novanta
- sarebbe una figata.
Darei un braccio pur
di potermi catapultare in quegli anni in cui tutto nasceva e poco si sapeva, in
cui nulla o quasi era stato valorizzato, saccheggiato, usato. Darei un braccio
per tornare a quando era l’entusiasmo e non la consapevolezza il sentimento più
diffuso, le intuizioni rivelatrici e non i protocolli più condivisi le chiavi
di lettura per riconoscere un terroir e un vino di valore.
Ecco, se un genio
mai esistesse e accettasse l’ardito baratto (il mio arto per un salto temporale
di circa quarant’anni), allora mi trasferirei certamente a Bolgheri, perché il
vino italiano che segna il taglio netto con il passato - e l’inizio del
rinnovamento - nasce proprio in quel lacerto di costa toscana cantato dal
Carducci. Lì, Tenuta San Guido nella seconda metà degli anni ’70 e un manipolo
di altre aziende nate nel decennio successivo - Ornellaia, Grattamacco, Guado
al Tasso, Michele Satta e dopo qualche anno, Le Macchiole – attirarono
l’attenzione della stampa e degli specialisti sulla nostra enologia (quando il
vino di qualità quasi non esisteva) con bottiglie concepite fregandosene del
passato ma guardando avanti, molto avanti. Bottiglie che contenevano liquidi
giovanili, croccanti, polposi, curati, ottenuti da vitigni francesi alla moda
di Bordeaux, slegati dalla tradizione e dalle abitudini locali: una specie di
apparizione del colore dopo una vita in bianco e nero, come vedere il cielo
dopo una vita in galleria.
E si sa che la luce
di Bolgheri è proverbiale. Quella del tardo pomeriggio, che altrove perderebbe
in intensità e che lì, grazie alla decisiva azione di riflessione del
vicinissimo Mar Tirreno, sprizza luminosità fino al crepuscolo, alternandosi
all’azzurro del mare, al verde della pineta costiera, al rosso della terra
ferrosa. Una luminosità che è gioia per la vite, per i grappoli e per noi
bevitori, giacché la si percepisce sempre, in ogni vino rosso locale, perfino
in quelli più strutturati e profondi, anche in quelli meno felici. Che passi da
un pertugio o da un’ampia finestra, a seconda dello stile di ciascuna azienda, delle
caratteristiche proprie di una zona e del timbro della singola annata, la
luminosità è una costante a Bolgheri, e scongiura la cupezza che molti rossi di
ispirazione bordolese esprimono in altri luoghi della Toscana.
Non è finita. Perché
ci sono le brezze, frequenti, costanti, tangibili in qualsiasi periodo
dell’anno, alimentate da un virtuoso movimento di correnti d’aria di cui sono
responsabili il mare a ovest e il polmone verde delle Colline Metallifere a
est, una catena antiappenninca di media altitudine (parallela alla costa) che
in inverno protegge e in estate rinfranca l’intero vigneto bolgherese, fungendo
altresì da spartiacque fisico e climatico con la limitrofa (e più continentale)
zona della Val di Cornia. In questo contesto solare, provenzale, prettamente
mediterraneo nascono i più noti <<Bordeaux italiani>>, i cui
portabandiera, nel mondo, sono principalmente due: Sassicaia e Ornellaia. Il
primo in perfetto stile europeo, classicissimo; il secondo costruito per
incantare i mercanti internazionali. Alle loro spalle però c’è di cui gioire: i
vini di Le Macchiole, di Fabio Motta, de I Luoghi, di Enrico Santini, di
Argentiera, di Grattamacco meritano infatti da anni altrettanta considerazione.
Sassicaia, vero e proprio mito italico celebre ovunque nel pianeta, è la referenza di punta della Tenuta San Guido, fondata nel 1942 da Mario Incisa della Rocchetta, un visionario e per alcuni addirittura un genio nato a Roma nel 1889 da famiglia monferrina. Il quale studiò alla facoltà di agraria dell’università di Pisa, conobbe Clarice della Gerardesca, discendente di uno dei casati più antichi della Toscana e a Bolgheri mise radici. Al marchese Mario Incisa della Rocchetta si deve gran parte della conservazione dell’ambiente e dello sviluppo dell’Alta Maremma, in quella fascia di territorio che parte poco a sud di Bibbona e arriva fino ai confini della Val di Cornia. Un’opera scaturita dall’amore che il marchese aveva nei confronti del territorio: tanto a Bolgheri – complice la cospicua dote della moglie Clarice: 600 ettari e una decina di poderi - realizzò nel 1959 la prima oasi faunistica privata italiana. Tra i fondatori, nonché primo presidente del WWF italiano, fu anche proprietario della scuderia Dormello Olgiata (fondata con il grande allevatore Federico Tesio), dove nacque il mitico cavallo Ribot, il più famoso galappatore di tutti i tempi. Ma a Mario si deve soprattutto l’invenzione del Sassicaia (la sassicaia è il mucchio di sassi accumulati dopo la bonifica del terreno), vino battezzato con la vendemmia 1968 (con saldo di 67 e di 69) dopo ben 26 anni di sperimentazioni. Sassicaia, che gode di una propria sottozona a partire dal 1994 e di una propria denominazione d’origine dalla vendemmia 2013 (Bolgheri Sassicaia) è ancora una creatura della famiglia Incisa della Rocchetta, di Nicolò e di sua figlia Priscilla, con la collaborazione del bravissimo Carlo Paoli.
Il resto è storia attuale. Una settantina di aziende attive sul territorio, poco meno di 1400 ettari vitati complessivi, di cui il 37% appannaggio del Cabernet Sauvignon, seguito dal Merlot (23% della superficie totale), dal Cabernet Franc (12%), dalla Syrah e dal Petit Verdot (entrambi attorno al 6,5%). L’offerta, ormai ampia e articolata, è fatta di luci e di ombre, di vini grandi (pochi) e di vini grossi (tanti), di vini di terroir (pochi) e di vini di stile (tanti), di vini originali (pochi) e di vini prevedibili (tanti). Bisogna dunque saper scegliere, come del resto ovunque nel mondo, dalla Borgogna alla Langa, da Napa alla Rioja: non c’è vino buono senza bevitori curiosi e intelligenti.
Bolgheri in pillole.
Bolgheri è sinonimo di giaciture dolci, tra pianura e pedecollina, più episodica è invece la viticoltura in collina. I vigneti, a rittochino, prevedono un sistema di allevamento a controspalliera con potature a cordone speronato (assai menon diffuso è il Guyot Semplice), con densità di ceppi per ettaro che oscillano tra 5000 e 8000. L’epoca di maturazione è precoce per il Merlot (fine Agosto, prima settimana di Settembre), intermedia per il Cabernet Franc (seconda decade di Settembre), tardiva per il Cabernet Sauvignon (fine Settembre/prima decade di Ottobre). I terreni alternano argille e sabbie, con strati limosi più cospicui in pianura e presenza di sasso più o meno sensibile a seconda dei luoghi. In cantina si lavora in modo ortodosso, con vinificazioni in acciaio (più raramente in tini di cemento e legno), macerazioni di due/tre settimane, svinature e travasi in barrique bordolesi, maturazioni di 12/16 mesi. Seguono filtrazioni blande e chiarifiche all’occorrenza. I prezzi delle bottiglie in enoteca variano dai 20 euro di media delle referenze più semplici alle diverse centinaia di euro delle etichette più illustri.